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Isole Orcadi, Scozia, oggi 

Jodie Michaelson fumava di rabbia. Quella sera, lei e gli altri tre concorrenti del programma televisivo Outcasts erano stati costretti a camminare con addosso un paio di pesanti scarponi su uno spesso cavo teso a un'altezza di novanta centimetri fra due ammassi di rocce. Il numero era stato denominato «la prova del fuoco vichingo». File di torce ardevano ai lati della fune per accrescere la sensazione di drammaticità e di pericolo, sebbene la linea di fuoco si trovasse in realtà a un paio di metri di distanza. Grazie alle riprese delle telecamere da posizione angolata, il percorso sembrava ben più rischioso di quanto effettivamente fosse.

Ciò che non era simulato, invece, era il modo in cui la produzione aveva programmato le cose allo scopo di condurre i partecipanti alle soglie della violenza.

Outcasts era l'ultima proposta fra i reality sbucati come funghi dopo il successo riscosso da Survivor e Fear Factor. Si trattava di una combinazione esasperata dei due format, con l'aggiunta di qualche sceneggiata sul modello del talk show presentato da Jerry Springer.

Lo schema era semplice. Dieci concorrenti dovevano superare una serie di prove nello spazio di tre settimane. Chi non ce la faceva, o veniva eliminato dai compagni, doveva lasciare l'isola.

Il vincitore avrebbe incassato un milione di dollari, ed erano previsti buoni premio, apparentemente assegnati in base alla cattiveria di cui i partecipanti sapevano dare prova fra loro.

Lo show era ritenuto ancor più spietato dei suoi predecessori, e la produzione ricorreva a qualsivoglia trucco pur di esasperare la tensione. Se negli altri reality vi era una forte competizione, in Outcasts regnava una scoperta aggressività.

Il format era ispirato in parte al corso di sopravvivenza del famoso movimento Outward Bound, nel quale i partecipanti devono sopravvivere con quanto riescono a strappare alla natura. A differenza degli altri show del genere, ambientati per lo più in paradisi tropicali fra acque turchesi e palme ondeggianti, Outcasts veniva girato su una delle isole Orcadi, in Scozia. I concorrenti erano stati depositati là da una brutta imitazione di nave vichinga davanti a un'assemblea di uccelli marini.

Lunga poco più di tre chilometri e larga un chilometro e mezzo, per lo più rocciosa, ridotta a un ammasso di protuberanze e crepacci da un qualche cataclisma dell'antichità, l'isola aveva qualche macchia di alberi scheletriti e un litorale di sabbia granulosa sul quale veniva filmata la maggior parte delle scene. Il tempo era mite, tranne che di notte, e le capanne rivestite di pelli mediamente accettabili.

L'ammasso di rocce era a tal punto insignificante che i locali lo chiamavano «Wee Island». Il doppio significato del termine wee, «minuscolo» ma anche «pisciatina», aveva dato origine a uno scambio di battute fra il direttore di produzione, Sy Paris, e il suo assistente, Randy Andleman.

Paris si era lasciato andare a una delle sue classiche crisi di nervi. «Non possiamo girare un reality in un posto con un nome del genere. Bisognerà trovare qualcos'altro.» Il viso gli si era illuminato di botto. «Lo chiameremo 'Isola del Teschio'.»

«Non ha la forma di un teschio», aveva obiettato Andleman. «Mi viene in mente piuttosto un uovo al tegame troppo cotto.»

«Abbastanza azzeccato», era stato il commento di Paris prima di schizzare via.

Jodie, che aveva assistito alla conversazione, strappò un sorriso ad Andleman dichiarando: «Secondo me, somiglia al cranio di un produttore di serial TV al quale manca qualche rotella».

Le prove erano per lo più del genere disgustoso come squartare vivi e divorare dei granchi o immergersi in un contenitore pieno di anguille, con il risultato garantito di agganciare lo spettatore inducendolo a guardare la puntata successiva per vedere fino a che punto si sarebbe arrivati. Alcuni dei concorrenti sembravano essere stati scelti esclusivamente per la loro aggressività e villania.

Il colmo lo avrebbero raggiunto la notte in cui gli ultimi due contendenti si sarebbero dati la caccia, armati di binocolo per la visione notturna e fucile caricato a palline di gelatina piene di vernice, una prova ispirata alla trama di un vecchio film, The Most Dangerous Game. Il superstite si sarebbe aggiudicato un ulteriore milione di dollari.

Originaria della Orange County, in California, Jodie era un'insegnante di educazione fisica con un corpo mozzafiato mortificato in abiti pratici e poco vistosi. Aveva lunghi capelli biondi, e un'intelligenza brillante che aveva accuratamente dissimulato per essere accettata nel programma. Pur sapendo che ogni concorrente rivestiva un determinato ruolo, rifiutava la parte della bambolina assegnatale dalla produzione.

Nell'ultimo quiz a punti, a lei e agli altri era stato chiesto se uno strombo fosse un pesce, un mollusco o una vettura. Secondo lo stereotipo della bionda svampita previsto dallo show, la sua risposta doveva essere «un'auto».

Gesù, si disse, non avrebbe più sopportato niente del genere, una volta tornata nel mondo civile.

Delusa dalla sua mancanza di collaborazione durante il quiz, la produzione aveva lasciato chiaramente intendere di non volerla più fra i piedi, e lei aveva fornito loro l'occasione di essere buttata fuori quando, a causa di una scintilla nell'occhio, aveva fallito la prova del sentiero di fuoco. I membri superstiti della tribù si erano radunati intorno al falò con un'espressione grave dipinta sul volto, mentre Sy Paris le ordinava teatralmente di lasciare il clan per fare la sua entrata nel Walhalla. Gesù.

In quel momento, si stava giusto allontanando dal fuoco, furente con se stessa per aver fallito, ma anche ansiosa di togliere le tende. Dopo qualche settimana in compagnia di quei pazzi furiosi, era ben contenta di poter tagliare la corda. L'isola era un luogo aspro e splendido, ma si era stancata delle maldicenze, delle manovre e dell'atmosfera di sospetto in genere cui un concorrente doveva sottostare per il dubbio onore di venire inseguito nottetempo come un cane rabbioso.

Oltre il Cancello del Walhalla, un portale costruito con ossa di balena in plastica, una grossa roulotte ospitava i membri della produzione. Mentre gli sfidanti dormivano in capanne ricoperte di pelli e mangiavano insetti, il personale si godeva un bel calduccio, letti comodi e pranzi da gourmet.

Man mano che venivano espulsi dal gioco, i concorrenti trascorrevano una notte nella roulotte per essere poi prelevati da un elicottero, il mattino seguente.

«Che sfortuna», fu il commento di Andleman nell'accoglierla sulla soglia. Andleman era un vero tesoro, l'esatto opposto del suo esasperante capo.

«Già, proprio una disdetta. Docce bollenti, pranzi caldi e cellulari a disposizione, d'ora in poi.»

«Be', è tutta roba che abbiamo anche qui.»

La ragazza si guardò attorno osservando l'accogliente sistemazione.

«Così pare», borbottò.

«Quella laggiù è la tua cuccetta», le comunicò l'uomo. «Serviti qualcosa da bere al bar, e tieni presente che in frigorifero c'è dell'eccellente pâté che ti aiuterà ad allentare la tensione. Io devo correre a dare una mano a Sy, ma tu fai come se fossi a casa tua.»

«Grazie, non mancherò.»

Avvicinatasi al bar, si versò senza troppi complimenti un abbondante Beefeater. Il pâté era davvero delizioso come preannunciatole. Non vedeva l'ora di tornare a casa. Gli ex concorrenti facevano il giro dei vari talk show per infierire sui compagni che si erano lasciati alle spalle. Soldi facili. Si allungò in una comoda poltrona dove si addormentò nel giro di qualche minuto, aiutata dall'alcol.

A un certo punto, si svegliò di soprassalto. Nel sonno aveva udito suoni acuti come stridii di gabbiani o urli di bambini scatenati nel gioco, su un sottofondo di grida e richiami.

Strano.

Si alzò e raggiunse la porta con l'orecchio teso, chiedendosi se Sy non avesse per caso escogitato qualche nuovo sistema per umiliare i suoi concorrenti, obbligandoli magari a esibirsi in una danza selvaggia intorno al fuoco.

Si avviò a passo svelto lungo il sentiero che conduceva alla spiaggia. Le grida sembravano più forti, in quel momento, più frenetiche. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato. Erano urla di panico, quelle, non di divertimento. Affrettando il passo, varcò il Cancello del Walhalla. La visione che le si parò davanti sembrava una scena dell'inferno dipinta da Hieronymus Bosch. La gente del cast e gli operatori stavano subendo l'assalto di rivoltanti creature dall'aspetto per metà umano e per metà animale, che abbattevano ringhiando le proprie vittime per dilaniarle poi a colpi di zanne e artigli.

Vide cadere Sy, poi Randy. Riconobbe parecchi corpi abbandonati sulla sabbia, massacrati e coperti di sangue.

Alla luce tremolante del falò, Jodie notò che gli aggressori avevano una criniera biancastra lunga fino alle spalle. Il volto era una maschera contorta, orrenda, qualcosa di terrificante come mai le era capitato di vedere.

Uno di loro stringeva un braccio strappato e se lo stava portando alla bocca. Incapace di trattenersi, la giovane lanciò un grido... e le creature sospesero l'osceno festino per fissarla con occhi feroci dai riflessi color fiamma.

Sul punto di cedere ai conati di vomito, vedendoli avvicinarsi con andatura barcollante si slanciò in una corsa disperata.

Il primo pensiero fu la roulotte, ma ebbe sufficiente presenza di spirito da capire che era come infilarsi in una trappola.

Si precipitò verso la zona rocciosa sopraelevata, tallonata dalle creature che ansimavano come segugi dietro di lei. Al buio, perse l'equilibrio e cadde in un crepaccio, inconsapevole del fatto che l'incidente le avrebbe salvato la vita, impedendo agli inseguitori di annusare il suo odore.

Batté il capo. Riprese i sensi una prima volta, e le parve di udire voci roche e colpi d'arma da fuoco. Poi svenne di nuovo.

Il mattino seguente, all'arrivo dell'elicottero, giaceva ancora priva di conoscenza nella fenditura del terreno. Perlustrata l'isola e scovato finalmente il corpo di Jodie, l'equipaggio sbalordito dovette arrendersi all'evidenza: tutti gli altri erano svaniti nel nulla 2 Monemvassia, Peloponneso, Grecia Nel suo incubo ricorrente, Angus MacLean era una capra legata a un palo e accerchiata da una tigre affamata, i cui occhi gialli lo fissavano dall'ombra della giungla circostante. I bassi ruggiti crescevano gradualmente d'intensità fino ad assordarlo. Poi, la belva si lanciava in avanti. Ne sentiva il fiato fetido, le zanne acuminate che gli squarciavano il collo mentre lottava contro la corda in un ridicolo tentativo di fuga. Udiva il proprio belato patetico e angoscioso trasformarsi in un lamento disperato... e si svegliava ansante fra le lenzuola spiegazzate, in un bagno di sudore gelido.

MacLean scese a tentoni dallo stretto lettino e spalancò le persiane, lasciando che il sole della Grecia inondasse le pareti di calce bianca di quella che era stata un tempo la cella di un monaco. Infilati una maglietta, un paio di pantaloncini e i sandali da passeggio, uscì all'aperto e rimase abbagliato dallo scintillio del mare color zaffiro. Il cuore aveva finalmente ritrovato il proprio ritmo regolare.

Trasse un profondo respiro, inalando il fragrante profumo dei fiori selvatici che circondavano il monastero a due piani dalle pareti decorate a stucco. Aspettò che le mani smettessero di tremare, quindi intraprese la passeggiata mattutina che si era rivelata il miglior antidoto per i suoi nervi scossi.

Il monastero sorgeva all'ombra di una massiccia rupe che i dépliant turistici definivano spesso «la Gibilterra della Grecia». Per raggiungerne la vetta bisognava percorrere un sentiero che correva lungo la sommità di un antico muro. Secoli prima, gli abitanti della città bassa si erano ritirati in cima a quei bastioni per difendersi dagli invasori, ma non rimanevano ormai che le rovine del borgo che aveva un tempo ospitato un intero popolo in stato di assedio.

Dal punto di osservazione privilegiato offertogli da una chiesa bizantina diroccata, MacLean godeva di una visuale di chilometri e chilometri. Distinse i colori accesi di alcune barche da pesca al lavoro. Tutto tranquillo, all'apparenza, nonostante MacLean sapesse che il senso di sicurezza che traeva da quel rituale mattutino era fittizio: chi gli stava dando la caccia non si sarebbe palesato prima di averlo ucciso.

Dopo essersi aggirato per un po' fra le rovine come un'anima in pena, ridiscese il muraglione e si avviò verso la sala da pranzo, al secondo piano del monastero. Risalente al quindicesimo secolo, lo storico edificio era uno dei tanti sparsi per il Paese che il governo greco aveva destinato a uso foresteria. Prima di presentarsi per la prima colazione, MacLean attendeva invariabilmente che tutti gli altri ospiti avessero lasciato la stanza.

Il giovane intento a ripulire la cucina lo accolse con un sorriso. «Kalimera, dottor MacLean.»

«Kalimera, Angelo.» Poi, sfiorandosi la fronte con l'indice: «Hai dimenticato?»

La luce gioiosa scomparve di botto dagli occhi del suo interlocutore.

«Certo, ha ragione. Le domando scusa, signor MacLean.»

«Non c'è problema. Mi dispiace seccarti con le mie bizzarre pretese», lo consolò MacLean con la sua dolce cadenza scozzese, «ma, come ti ho già spiegato, non voglio che la gente pensi di potermi assillare con i suoi mal di pancia.»

«Neh. Certo, è naturale, signor MacLean. Capisco perfettamente.»

Angelo gli servì una ciotola di fragole fresche, melone verde e cremoso yogurt greco con l'aggiunta di miele locale e noci, il tutto accompagnato da una tazza di forte caffè nero. Il giovane monaco addetto a servire a tavola era sulla trentina, con riccioluti capelli neri e un bel volto illuminato in genere da un serafico sorriso. Una combinazione fra portinaio, cameriere, caposala e padrone di casa, indossava comuni abiti da lavoro; unico indizio dei voti pronunciati, il cordone mollemente annodato intorno ai fianchi.

Durante le due settimane di permanenza di MacLean, fra i due uomini si era instaurata una forte amicizia. Ogni mattino, una volta assolti i propri compiti in cucina, Angelo si attardava a chiacchierare con l'ospite sull'argomento per il quale nutrivano un interesse comune: la civiltà bizantina.

Lo scozzese si era lasciato assorbire dalla storia per distrarsi dalla stressante attività di ricercatore chimico. Anni prima, i suoi studi lo avevano portato a Mistrà, un tempo fulcro dell'universo bizantino. Scendendo lungo il Peloponneso, si era imbattuto in Monemvassia. Un angusto sentiero fiancheggiato dal mare rappresentava la sola via di accesso alla cittadina, un pugno di vicoli e sentieri sovrastato dalla rupe il cui unico ingresso aveva dato il nome a Monemvassia. Conquistato dalla bellezza del luogo, MacLean si era ripromesso di tornare, un giorno o l'altro, non immaginando certo che lo avrebbe fatto per sfuggire alla morte.

Il Progetto era sembrato talmente innocente, all'inizio. Stava insegnando chimica avanzata presso l'università di Edimburgo, quando gli era arrivata una proposta da sogno: la ricerca pura che aveva sempre amato. Accettata l'offerta, aveva chiesto un permesso e si era lanciato nel lavoro senza lasciarsi scoraggiare dalle lunghe ore di fatica e dall'esigenza di una segretezza assoluta. Aveva assunto la guida di uno dei numerosi team impegnati nello studio degli enzimi, le proteine complesse in grado di catalizzare le reazioni biochimiche.

Segregati in confortevoli alloggi nella campagna francese, gli scienziati addetti al Progetto avevano ben pochi contatti con il mondo esterno. Un collega si era scherzosamente riferito alla loro ricerca come al «Progetto Manhattan». L'isolamento non rappresentava un problema per MacLean, scapolo e senza parenti stretti, ma anche fra i suoi compagni erano pochi quelli che si lamentavano. La retribuzione astronomica e le eccellenti condizioni di lavoro erano una ricompensa più che sufficiente.

Poi, il Progetto aveva imboccato una svolta poco simpatica. Quando MacLean e gli altri avevano avanzato qualche domanda era stato risposto loro di non preoccuparsi, anzi, erano stati spediti a casa con l'ordine di aspettare sino a che non fossero stati analizzati i risultati del loro lavoro.

MacLean, invece, aveva deciso di recarsi a esplorare alcune rovine in Turchia. Al ritorno in Scozia, parecchie settimane più tardi, aveva trovato sulla segreteria telefonica il clic di diverse chiamate subito interrotte e lo strano messaggio di un ex collega, che gli chiedeva se avesse letto i giornali e lo pregava di richiamarlo con urgenza. Cercato invano di mettersi in contatto con lui, il professore aveva scoperto che lo scienziato era deceduto qualche giorno prima, investito da un'auto pirata.

Più tardi, fra la corrispondenza, gli era stato recapitato un pacchetto spedito dall'uomo prima di morire. La spessa busta era piena di ritagli di giornale che descrivevano una serie di decessi accidentali. Nello scorrere gli articoli, MacLean aveva sentito un brivido lungo la schiena: le vittime erano tutti scienziati che avevano lavorato con lui al Progetto.

Scribacchiato su un pezzo di carta, un secco monito aveva completato il tutto: Scappa o muori!

Lottando contro il proprio istinto di persona razionale, MacLean si era imposto di considerare tutte quelle scomparse delle mere coincidenze. Poi, qualche giorno dopo la lettura degli articoli, un camion aveva tentato di buttare fuori strada la sua Mini Cooper. Se l'era cavata per miracolo, riportando solo qualche graffio, ma aveva riconosciuto nell'autista del mezzo uno degli agenti silenziosi che avevano vegliato sugli scienziati presso il laboratorio.

Che pazzo era stato!

Sapeva di dover fuggire. Ma dove? Era stato allora che si era ricordato di Monemvassia, località di vacanze molto popolare fra i greci del continente, quando invece la maggior parte degli stranieri in visita alla rupe le dedicava solo gite giornaliere.

Mentre rifletteva sugli eventi che lo avevano portato nel Peloponneso, vide arrivare Angelo con una copia dell'International Herald Tribune. Il monaco lo informò di avere delle commissioni urgenti da fare, ma assicurò che sarebbe stato di ritorno entro un'ora. Con un cenno di assenso, MacLean bevve un sorso di caffè assaporandone il gusto deciso. Dopo una rapida occhiata alle solite notizie sull'economia e le varie crisi politiche, lo sguardo gli cadde su un titolo fra le brevi di cronaca internazionale: SOPRAVVISSUTA DICHIARA CHE MOSTRI AVREBBERO UCCISO TECNICI E PARTECIPANTI DI SPETTACOLO TELEVISIVO La località interessata era un'isola scozzese delle Orcadi. Incuriosito, si soffermò sull'articolo. Non erano che pochi paragrafi, ma quando ebbe finito si rese conto che gli tremavano le mani. Lesse e rilesse il testo fino a che non gli si appannò la vista.

Mio Dio. È accaduto qualcosa di spaventoso.

Ripiegato il giornale, uscì all'aperto e si fermò a meditare alla luce rassicurante del sole. Sarebbe tornato a casa, decise, in cerca di qualcuno disposto a credere alla sua storia.

Raggiunta la porta del borgo, si fece accompagnare da un taxi fino alla stazione dei traghetti dove acquistò un biglietto per l'aliscafo del giorno seguente per Atene. Di ritorno nella propria stanza, cominciò a radunare i pochi effetti personali che aveva con sé. E ora? si chiese. Stabilì di trascorrere l'ultima giornata attenendosi alla consueta routine. Passeggiò fino a un bar all'aperto, dove ordinò un bicchierone di limonata fredda. Era immerso nella lettura del giornale, quando si rese conto che qualcuno gli aveva rivolto la parola.

Sollevando lo sguardo, vide una donna dai capelli grigi in casacca e pantaloni di poliestere a fiori, in piedi accanto al tavolino con una macchina fotografica in mano.

«Spero di non disturbare», stava dicendo la sconosciuta con un dolce sorriso. «Le dispiacerebbe? Mio marito e io...»

Capitava spesso che i turisti gli chiedessero d'immortalare la loro gita con una foto. Altissimo e allampanato, con gli occhi azzurri e i folti capelli sale e pepe, spiccava inevitabilmente in mezzo ai greci, più bassi di statura e dai colori più scuri.

Da uno dei tavolini lì accanto, un tizio scoprì i denti sporgenti in un sorriso. Il viso lentigginoso era rosso fiamma per il troppo sole. Con un cenno della testa, MacLean prese la macchina fotografica dalle mani della donna e scattò qualche istantanea alla coppia prima di restituirla.

«Grazie infinite!» fece lei in tono espansivo. «Non sa quanto significhi, per noi, poter aggiungere queste immagini all'album di viaggio.»

«Americani?» Il bisogno di parlare liberamente nella propria lingua vinse la riluttanza di MacLean a intraprendere una conversazione con estranei.

L'inglese di Angelo era piuttosto limitato.

«È così evidente?» rispose la donna, raggiante. «Facciamo di tutto per adeguarci all'ambiente.»

Il poliestere giallo e rosa non rientrava decisamente negli standard di abbigliamento ellenici, si disse MacLean. Il marito indossava una camicia bianca di cotone senza collo, e un berretto nero da comandante di quelli destinati per lo più al mercato turistico.

«Siamo arrivati con l'aliscafo», annunciò l'uomo con un accento strascicato, alzandosi in piedi per far aderire la palma umidiccia alla mano di MacLean. «Accidenti, che galoppata! Inglese?»

«Oh, no, scozzese», rispose MacLean con un'occhiata inorridita.

«Io sono mezzo Scotch e mezzo soda. Mi scuso per la gaffe. È come se lei avesse preso noi, che veniamo dal Texas, per gente dell'Oklahoma, suppongo.»

MacLean si chiese come mai tutti i texani che aveva conosciuto parlassero come se l'interlocutore avesse problemi di udito. «Non avrei mai pensato che foste originari dell'Oklahoma. Vi auguro un buon soggiorno.»

Sul punto di allontanarsi, MacLean fu bloccato dalla donna che chiese al marito di scattarle una foto con quel signore così cortese. Si mise in posa accanto all'americana, poi fu il turno del consorte.

«Davvero gentile», tornò a ringraziarlo la donna, che esibiva modi più raffinati rispetto al coniuge. In breve, apprese che Gus ed Emma Harris provenivano da Houston, che lui aveva lavorato nel settore petrolifero e lei era una ex professoressa di storia sul punto di esaudire il sogno di una vita: visitare la Culla della Civiltà.

Dopo aver stretto loro la mano e incassato una valanga di ringraziamenti, prese la via del ritorno e, a passo spedito nella speranza che non fossero tentati di seguirlo, avanzò lungo il sentiero tortuoso che conduceva al monastero.

Una volta raggiunta la propria stanza, chiuse le persiane immergendo il locale nella penombra per mantenerlo più fresco, quindi si coricò e dormì durante le ore più calde del pomeriggio. Al risveglio, si spruzzò dell'acqua fredda sulla faccia prima di uscire all'aperto per prendere una boccata d'aria. Con sorpresa, vide gli Harris fermi accanto all'antica cappella dai muri imbiancati a calce, nel cortile dei monastero.

Gus e la moglie, intenti a scattare foto all'edificio, lo avvistarono e subito salutarono con la mano, sorridendogli; dopo averli raggiunti, MacLean li invitò a visitare la sua stanza, dove i due rimasero impressionati dalla fattura dei pannelli di legno scuro alle pareti. Tornati all'aperto, sollevarono lo sguardo verso la rupe scoscesa alle spalle della costruzione.

«Si deve godere di una vista fantastica, da lassù», commentò Emma.

«È una bella arrampicata.»

«Faccio un sacco di bird-watching, a casa, e sono in forma perfetta. Anche Gus è più in forma di quanto non possa sembrare.» Con un sorriso, aggiunse: «È stato un giocatore di football, anche se adesso è difficile crederlo».

«Sono un Aggie, un ex studente della Texas A and M University», intervenne il signor Harris. «E sono più tosto adesso di quanto non fossi allora. Anzi, le dirò, ho intenzione di tentare la scalata.»

«Crede di poterci mostrare il sentiero?» chiese Emma a MacLean.

«Spiacente, ma devo prendere l'aliscafo domattina presto.» MacLean suggerì loro, se volevano affrontare la salita da soli, di partire di buon'ora, prima che il sole diventasse troppo caldo.

«Lei è un vero tesoro», commentò la donna, dandogli un materno buffetto sulla guancia.

Ammirato dalla loro energia, MacLean sorrise e rimase a osservarli mentre si allontanavano lungo il muraglione prospiciente il monastero, incrociando Angelo di ritorno dal villaggio.

Dopo aver salutato MacLean, il monaco si girò a contemplare la coppia.

«Ha conosciuto i due texani?»

Il sorriso di MacLean si trasformò immediatamente in una smorfia perplessa. «Come fai a sapere chi sono?»

«Sono venuti anche ieri mattina, mentre lei faceva la solita passeggiata», spiegò il giovane, indicando la città vecchia.

«Strano. Si sono comportati come se fosse il loro primo giorno qui.»

Angelo si strinse nelle spalle. «Diventando vecchi, magari perderemo la memoria anche noi.»

D'un tratto, MacLean si sentì come la capra legata al palo del suo incubo. Lo stomaco stretto da una morsa gelida, si scusò e tornò rapidamente nella propria stanza, dove si versò una robusta dose di ouzo.

Come sarebbe stato facile! Arrivati in cima alla rupe, gli avrebbero chiesto di mettersi in posa per una foto vicino al ciglio. Un colpetto, e sarebbe precipitato di sotto.

Un altro incidente. L'ennesimo scienziato deceduto.

Niente di troppo faticoso, neppure per una dolce professoressa di storia in pensione.

Rovistò nel sacchetto di plastica che usava per la biancheria sporca.

Seppellita sul fondo c'era la busta piena di ritagli ingialliti, che sparpagliò sul tavolo.

I titoli erano differenti, ma la sostanza di ogni avvenimento era la stessa.

SCIENZIATO MUORE IN INCIDENTE D'AUTO. SCIENZIATO INVESTITO DA AUTO PIRATA. SCIENZIATO UCCIDE LA MOGLIE E SI SUICIDA. SCIENZIATO PERISCE IN INCIDENTE SCIISTICO 

Ciascuna delle vittime aveva lavorato al Progetto. Dopo aver riletto l'annotazione Scappa o muori! e aver riposto insieme con gli altri il ritaglio dell'Herald Tribune, si recò al banco della reception del monastero, dove Angelo stava sfogliando una pila di prenotazioni.

«Devo partire», annunciò.

«Ne sono addolorato», replicò il monaco con aria mesta. «Quando?»

«Stanotte.»

«Impossibile. Non ci sono aliscafi né pullman fino a domani.»

«Eppure bisogna che me ne vada, e ti chiedo di aiutarmi. Farò in modo di ricompensarti per il disturbo.»

Negli occhi del monaco passò un lampo di tristezza. «Lo farei per amicizia, non per denaro.»

«Scusami. Sono un po' sottosopra.»

Angelo non era uno stupido.

«È a causa degli americani?»

«Ci sono dei brutti tipi che mi stanno alle costole. Quei due potrebbero essere arrivati qui sulle mie tracce. Come uno stupido, ho detto loro che sarei partito con l'aliscafo. Non sono sicuro che siano venuti da soli; potrebbero aver appostato qualcuno all'ingresso del villaggio.»

Angelo annuì. «Posso accompagnarla sulla terraferma in barca. Avrà bisogno di un'auto.»

«Speravo potessi noleggiarne una per me», replicò MacLean, porgendogli la propria carta di credito che si era sforzato di non usare fino a quel momento per non rischiare di essere rintracciato.

Dopo aver chiamato l'ufficio dell'agenzia di noleggio auto sulla terraferma, il monaco parlò per qualche minuto, poi riappese. «Tutto sistemato. Lasceranno le chiavi nella vettura.»

«Non so come ripagarti, Angelo.»

«Non voglio denaro. Un'offerta sostanziosa, piuttosto, la prima volta che va in chiesa.»

MacLean consumò una cena leggera in un locale appartato, dove si ritrovò a fissare con apprensione gli altri tavoli. La serata passò senza novità. Sulla via del ritorno al monastero, non fece che guardarsi alle spalle.

L'attesa fu un'agonia. Intrappolato nella propria stanza, rammentò a se stesso che le pareti avevano uno spessore di almeno trenta centimetri, e la porta era in grado di resistere ai colpi di un ariete. Pochi minuti dopo la mezzanotte, udì un leggero bussare all'uscio.

Afferrata la valigia, Angelo gli fece strada lungo il muraglione sino a una fila di scalini che scendeva verso una piattaforma di pietra usata dai nuotatori per tuffarsi in acqua. Alla luce di una torcia elettrica, MacLean scorse una piccola imbarcazione a motore assicurata alla piattaforma. Salirono a bordo. Angelo stava per afferrare il cavo di ormeggio, quando si udirono dei passi felpati lungo i gradini.

«Una crociera di mezzanotte?» esclamò la voce flautata di Emma Harris.

«Chi avrebbe immaginato che il professor MacLean volesse partire senza salutare?» rincarò il marito.

Dopo la sorpresa iniziale, MacLean ritrovò la favella. «Che ne è stato della sua cantilena texana, signor Harris?»

«Oh, quella. Non troppo azzeccata, lo ammetto.»

«Non ti affliggere, caro. È bastata a ingannare il professor MacLean, dopotutto. Sebbene debba riconoscere che nello sbrigare le nostre faccende siamo stati aiutati da una piccola dose di fortuna. Ci eravamo appena accomodati in quel minuscolo, delizioso bar, quando l'abbiamo vista arrivare. È stato gentile a lasciarsi riprendere, consentendoci di confrontare l'istantanea con la foto presente nel file che la riguarda. Non ci piace commettere errori.»

Il marito si lasciò sfuggire un risolino indulgente. «Rammento di aver pensato: Benvenuto in casa mia...»

«Come disse il ragno alla mosca.»

I due scoppiarono in una risata.

«Vi ha mandati la compagnia», mormorò MacLean.

«Gente in gamba», replicò Gus. «Sapevano che si sarebbe guardato da chiunque avesse l'aspetto di un gangster.»

«Un errore che hanno commesso in molti», sospirò Emma con una nota di tristezza nella voce, «e che ci consente di restare in attività. Vero, Gus? Be', il viaggio in Grecia è stato piacevole, ma tutte le cose belle finiscono, prima o poi.»

Angelo era stato ad ascoltare lo scambio di battute con un'espressione perplessa dipinta sul volto, inconsapevole del pericolo in cui si trovavano.

Prima che MacLean potesse impedirglielo, a un certo punto si chinò a slegare la barca.

«Scusate, ma dobbiamo andare.»

Furono le sue ultime parole.

Si udì il tonfo soffocato di un'arma con il silenziatore, e una lingua di fuoco squarciò l'oscurità. Afferrandosi il petto con le mani, Angelo emise un gorgoglio prima di cadere in acqua dalla barca.

«Sparare a un monaco porta sfortuna, mia cara», ammoni Gus, rivolto alla moglie.

«Non portava la tonaca», obiettò lei mettendo un po' di broncio. «Come facevo a saperlo?»

Parlavano in tono secco e ironico, in quel momento.

«Venga, professor MacLean», fece Gus. «C'è un'auto che l'aspetta per accompagnarla a un aereo della compagnia.»

«Non mi uccidete, dunque?»

«Oh, no», protestò Emma tornando al ruolo della turista innocente. «Ci sono altri progetti in vista, per lei.»

«Non comprendo.»

«Capirà, mio caro. Capirà.»

La Città Perduta
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